POETICA

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AUTOBIOGRAFIA SURREALE









Il dì 25 del mese di giugno di tanti anni fa, mia madre Isa Santin, colta dalle doglie, mentre mieteva il grano, scappa a casa in bicicletta. Sono le dieci del mattino. Due ore dopo vedo per la prima volta il mondo. Un orizzonte a 360° dove il Po diventa “i sette mari “ : Il grande Delta. L’ambiente della mia infanzia e dell’ adolescenza . Un grande, struggente, pittoresco scenario, terra-acqua-terra. Campi e paludi a non finire, “casoni di valle”, casette dai caratteristici camini, ponti e ponticelli, “barene e ghebbi” ed acqua, tanta acqua. Tutto un po’ fuso e confuso nella nebbia d’inverno e nella calura d’estate. Mia nonna Marieta, buonanima, vedova e sposata tre volte, che mi racconta di mio nonno Anzolo Santin (classe 1845) che in “ Merica ” aveva visto il serpente “basalisco”. E una notte d’estate aveva sparato alla “lumassa” che la credenza popolare identificava come anime vaganti dei morti in cerca di pace, in realtà fuochi fatui prodotti dall’autocombustione del gas metano che affiorava dal terreno. Lei, proprio lei Nonna Marieta , una notte aveva sentito sferragliare la catena trascinata dalla “bosgata sengiara”, la scrofa che ramingava alla ricerca dei suoi piccoli. E, mi assicurava che quell’ombra sulla luna non era altro che il “Salvanello” (chi era costui….?) che aveva rubato i “ capussi”( i cavoli) ed ora, forse per punizione sopranaturale, chissà, era finito lassù. E poi , la storpiatura dialettale delle preghiere imparate in latino. Il Pater Noster:… da nobis hodie…. per tutti diventa: …dona bisodia…personalizzata nell’immaginario popolare come una donna noiosa e petulante . L’ Ave Maria:…nunc et in hora mortis nostrae…, si contraeva diventando :…in catinora morti nostri…., per cui una persona con una brutta cera era già in “catinora”(morti) cioè più di là che di qua. Tutto questo accresceva in me l’ interesse per il misterioso,il fantastico.

Facevo seconda media, eravamo ai primi di novembre del ’51. Mettendo l’orecchio sul terreno come gli indiani d’ America nei “western”, si sentiva un brontolio sordo, era il Po che rioccupava i suoi sette mari. Era la più famosa alluvione del Polesine moderno. La “littorina” fischiando, si fermava a raccogliere gli sfollati lungo la ferrovia. Fummo accolti dalla zia Clite sorella di mia nonna Marieta, di là dall’Adige, più a nord, in territorio di Sant’Anna di Chioggia.

Dopo venti giorni eravamo “sfollati ufficiali” alla Cascina La Marza, in Lomellina nel pavese , dalla nonna Giusta e dal nonno Nullo, proprio così, che per delicatezza chiamavano Gigi. Per me nonno Gigi era il nonno di legno in quanto patrigno di mio padre Eugenio che invece chiamavano Zerlino e non per cattiveria. Dalla Cascina La Marza alla stazione ferroviaria di Olevano Lomellina, due chilometri, ci voleva quasi un’ ora a piedi . Da solo, alle sei e mezzo del mattino, con la neve , il gorgoglio delle rogge e le ombre scure dei pioppi, il mondo appariva diverso dalla realtà. Vedevo lontane le luci della Cascina Campalestro, sentivo ululare ed abbaiare i cani che nella mia mente diventavano i lupi di “Zanna bianca”. A volte affrettavo il passo per far più presto e scappare. Da lì, prendevo il treno per Mortara, nome assai gioioso data l’atmosfera, dove avevo ripreso a frequentare la seconda media.

A Rosolina, bonificata, ritornammo alla fine di Aprile del ’52. La casa era per un quarto macerie. Ci arrangiammo alla meglio, durante la ricostruzione. Tutti avevamo ripreso le nostre abituali occupazioni. Mia madre a lavorare la terra, sua (poca) e quella degli altri (tanta), per contribuire alle entrate della famiglia . Qualche volta, quando potevo l’aiutavo: “gato tante lession “ , mi chiedeva, povera donna. Io di nuovo a scuola in Adria. Mio padre a segare e piallare legno. Costruiva mobili, serramenti e carretti che decorava con strani pennelli a setola lunghissima e colori preparati da lui stesso con ossidi minerali ed olio di lino cotto.

A quel tempo c’era il Maestro Crivellari, formidabile disegnatore, che armato di valigetta-cavaletto di legno col “ necessaire” per dipingere, in bici da corsa correva per campagne e valli da pesca a ritrarre “casoni” di valle, casine col camino di fuori, “ghebbi “ e “lavorieri” con figurazioni ardite e, almeno per allora moderne. A Rosolina gli hanno dedicato una via. Lui, il Maestro , di scuola elementare , mio padre che istoriava i carretti, i pittori di Adria e di Chioggia che spesso osservavo attentamente dipingere all’aperto ed anche, spero, la mia disposizione naturale, mi spinsero a lavorare di pennello spatola e colori.

Costruii la mia cassetta, mi preparai, come papà, i colori mettendoli in tubetti di alluminio del dentifricio vuoti, I pennelli , quelli, li comprai: uno piccolo uno grande. Era bello! Come mi piaceva! Perché non fai una scuola d’arte? Eh si! Ma dove? A Venezia a Padova, troppo lontane! E allora? L’Istituto Tecnico, perito chimico, vuoi mettere! Due periti di Loreo erano andati a lavorare in Persia, guadagnavano un sacco di soldi. Sai, camminavamo sul metano. Si prospettava un futuro di grandi industrie chimiche nel Polesine sottosviluppato.

Finito di studiare era finito anche il sogno americano della “Bassa”. Ora c’era la “ subsidenza” , un mostro che si mangiava tutto sotto di noi. Il terreno si abbassava. Sospesero di trivellare ed estrarre metano e la festa finì.

Andai a militare, pardon a dipingere , con tanto di permesso, le vedute di Orvieto e de L’Aquila (povera Aquila) per marescialli ed ufficiali.

Con valigia di juta e pelle, che conservo ancora in soffitta, arrivai a Ferrani a, in provincia di Savona, dove fui assunto nel ‘61 (centenario dell’Italia Unita) alla, allora omonima Società di produzione di fotosensibili poi 3M. Cenai da Parodi . La Mafalda , in piemontese: “ci piacciono le raviole?” Non ne avevo mai mangiate e non sapevo neppure cosa fossero. Ne mangiai due piatti. E la Mafalda: “ pover fanciot che fam”.

1962. Prime ferie. Naturalmente a Rosolina al mare. Con la mia prima auto una Fiat “ 500”. Alberto Vacca con la patente rilasciata due giorni prima, io col “foglio rosa”. Ci impiegammo ben 12 ore, un’ avventura! Ristoranti di lusso in pineta! Ravioli in scatola scaldati su due mattoni e forchette ricavate da un reticolato trovato per lì e disinfettato alla fiamma.

Continuavo a dipingere. Dipingevo ricordi, ma dipingevo, tutti i giorni. Lo studio. La casa dell’ amico Bepi Giannotti che spesso mi invitava a cena ed io invariabilmente accettavo, capirai polenta e funghi , non so se mi spiego. Un americano della Ferrania 3M che tornava in patria mi comprò dei quadri. Tempo dopo un amico comune mi disse che quei quadri non avevano mai passato la dogana, erano rimasti in Italia , chissà in quale deposito dell’aeroporto. E io che credevo di avere “mie opere in collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero”. Che sfiga! A Cairo Montenottte diventai amico di Roberto Gaiezza e di Girgio Moiso, per la verità già amici di mia moglie, ora artisti affermati. Anche questa frequentazione mi aiutò parecchio. Il tempo passava, io cambiavo e la mia pittura cambiava. Nel 1968 visitai la mostra “Le muse inquietanti, i maestri del surrealismo”.

Fui letteralmente folgorato dai lavori dei vari : De Chirico, Magritte, Dalì, Delvaux, Ernst. Fu questo il seme di quanto di buono e di meno buono combinai negli anni futuri. Persino i “ murales”, la grafica della rivista Rockerilla, e le scenografie delle rappresentazioni teatrali dello “Sguardo dal palcoscenico” di Silvio Eiraldi ebbero il loro peso per la mia formazione artistica. Tutto era cambiato da quando , ragazzo, partecipai alla mia prima estemporanea alla Fiera di San Michele a Loreo. Quel quadro , me lo ricordo ancora, il titolo era “Preludio alla sera”, sparì dalla mostra , nessun giornale ne parlò mai! Ancora che sfiga! Ora quando ritorno a casa, quella “tera de pipe e de anguriari” non c’è più. D’ altra parte neppure io dipingo come una volta. Ora è tempo di “Informale” di post “post moderno”. Ma questa è un’altra storia!...come direbbe il mio amico Aldo Piazza.



I LEGNI DEL MARE

Sono anni che conservo i miei “legni del mare”. Pezzi di legno che da sempre mi hanno affascinato destando in me immagini e forme mai pensate. Non sono altro che pezzi di albero, di barche demolite o cassette sfasciate con attaccati i chiodi, le viti oppure pezzi di conchiglia quando non addirittura pezzi di juta, sacchi che potevano aver contenuto di tutto. Il fascino di questi legni era dovuto soprattutto alla loro indefinita provenienza. Una sorta di messaggio da decifrare. Per me, uomo legato da sempre al fascino dell’indefinito, del non più completo. Un qualche cosa che prima era definito, aveva una funzione specifica ora l’acqua del fiume, del mare l’aveva ridimensionato, nel senso vero della parola, l’aveva ristrutturato dandogli una forma non-forma del tutto nuova. Tutto questo rientrava perfettamente nello spirito e nella poetica tipici del’ “informale” cioè non senza forma ma con struttura non riconducibile ad un modello conosciuto. Tutto questo mi intrigava come si direbbe adesso.

Li ho conservati e collezionati a lungo questi ”legni” e assieme a loro anche conchiglie, bulloni e chiodi ad essi attaccati. Mi dicevo : prima o poi ne farò qualcosa! Avrei potuto attaccarli alla tela e poi assieme al colore farli rivivere, però non ne ero convinto e non sapevo da che parte incominciare.

Come tutti gli artisti di queste parti ho avuto l’occasione di “lavorare” la ceramica, da pittore non da vero ceramista. Privilegiando il colore perché poca era la dimestichezza con la materia e la forma. In questa occasione mi si è accesa la classica lampadina. Far rivivere i miei “legni del mare” lasciando la loro “impronta” sulla creta, sulla terra, una sorta di fossile che fissa il passato di un corpo che una sua vita ha pure avuto. Per me poi vi era una vecchia idea, un po’ concettuale, un po’ sentimentale che da molto percorreva i miei pensieri ed era legata alle mie personali vicende di vita. Avevo lasciato giovanetto casa, famiglia, terre, fiumi e mare (il Po con i suoi “septem maria”e l’Adriatico) per poter lavorare. Per caso sono finito in un posto a quattrocentocinquanta chilometri sulle Rive del Bormida (parafrasando il buon Cesare Abba) Cairo Montenotte. La Bormida, si sa, ce lo ha detto anche …non mi ricordo… dopo Alessandria si sposa col Tanaro ed entrambi confluiscono nel Po che, guarda caso, come ramo Po di Levante, passa davanti casa mia a Rosolina e dopo pochi chilometri si getta nel Mare Adriatico a Porto Caleri. In teoria, come ideale messaggio in una bottiglia, un qualsiasi “legno” da me usato, sotto qualsiasi forma, potrebbe aver toccato le mie “sacre sponde”. Ecco allora che un sospiro, un tocco un istante di me, della mia vita, sarebbe arrivato sulle rive di quella palude dove ragazzo raccoglievo conchiglie di capesante e pezzi di legno fin da allora così fascinosi.

E’ questo un pensiero sottile ,ma pieno di magia, perché quella cosa che chiamiamo nostalgia altro non è che la magia prodotta dal pensare e ripensare le stessa cosa tante volte da farle perdere la sua effettiva dimensione. Ed allora si dirà, e i “legni del mare”? I “legni del mare” ripercorrono a rovescio il mio cammino iniziato cinquanta anni fa, incessantemente, portando sulle rive della palude Adriatica un po’ di me stesso e delle mie gioie e delle mie miserie. Un modo come un altro per non sentirsi troppo soli.

Queste impronte a guisa di impronta fossile lasciate sulla terra ed immortalate dal fuoco sono un omaggio alle “cose” inanimate a cui l’uomo-artista col suo intervento dà quella dignità d’arte che prima non avevano.

Sandro Marchetti


 

SANDRO MARCHETTI - Cairo Montenotte - Savona - Italia - 2011 - ®

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